Archive for settembre 2009|Monthly archive page

Rien a faire

Ho letto molti libri, ascoltato buona musica, visto un gran numero di film, sperimentato un adeguato livello di stupefacenti, praticato sport agonistico, completato un significativo ciclo scolastico, viaggiato per l’Europa, perlustrato il mistero di alcuni corpi femminili, scritto poesie in giovane età, lavorato dignitosamente e con fatica.

Ma mica è bastato.

No no.

Grand Cru

C’è stato un tempo, pieno di cravatte e carte d’imbarco, in cui spesso viaggiavo per lavoro. Niente di particolarmente strano, lo fanno in tanti. Mi piaceva stare negli aeroporti: adoravo sopra ogni cosa acquistare bottiglie di vino al duty free. Molti invece preferivano il camembert o le mozzarelle. A me piaceva comprare del vino. E siccome non sono mai stato un grande intenditore, tendevo a comprare vini pregiati, vagamente costosi, dalle elaborate etichette.

Arrivavo a casa e mia moglie – cioè quella che al tempo era mia moglie – buttava un occhio rapido all’etichetta e diceva, con un fare fra l’annoiato e l’esperto: “Ah certo, lo conosco, è il … (fate voi il nome)…”. Ottimo, davvero una buona scelta”.

Io restavo lì, intontito, come se la bottiglia l’avessi già bevuta.

Diffidate dei docenti di storia medievale con la passione per le dottorande e il buon vino francese.

If I could only remember my name

Ero là, ai piani alti di un hotel. Indossavo un abito verde scuro e le scarpe non erano intonate al resto, come sempre.

Sotto, vedevo una piazza. Transenne, marmo, brandelli di manifesti.

Scendevo da pianure ardenti di ammoniaca, guidavo macchine in affitto e aspettavo candidati. La cosa di maggior spessore intorno a me era il velluto della moquette. Intanto guardavo le lame delle bandiere frustare le colline.

Non avevo occhi d’acciaio per vedere, ma pensieri limpidi. Questo sì.

Leaving dogs

Li vedi fermi ai semafori, ciechi. Muovono pochi passi incerti, poi si fermano di colpo, senza riuscire più ad annusare l’aria. I loro padroni sussurrano parole, pazienti o teneramente brusche. Loro sembrano non sentire, distratti da lampi invisibili.

Ma scatta il verde e corri via dai loro occhi opachi.

Un altro cane anziano ti aspetta al prossimo semaforo.

L’alone

Guardo con regolarità le foto su Facebook. Feste di compleanno, ritrovi,  una qualsiasi ricorrenza. Dei miei amici, degli amici dei miei amici e anche di quelli che incautamente hanno lasciato aperto a tutti il loro profilo.

Le mie preferite sono quelle delle signore di una certa età, tutte sempre abbronzatissime, elegantissime, ristrutturatissime, manco fossero un attico in centro. Le donne sorridono sempre: la percentuale di esposizione dentaria supera quella dell’inflazione del Mozambico. Sullo sfondo si immaginano roof garden brianzoli e serate nel locale alla moda, che di solito si chiama – molto discretamente – con il nome della via  dove si trova, con relativo numero civico graficamente avvicinato. Oppure con il solo numero civico. Classe pura. Ogni tanto attraversano le immagini figli eleganti e dinoccolati, annoiati nella loro impertinente adolescenza. Che forse, per reggere alla serata, si sono calati qualcosa che hanno comprato in giro.

Poi ci sono quelle un po’ così degli amici ritrovati, pochi capelli e molti chili in più. Gli uomini hanno gli occhi spenti, e non perché si sono infilati in gola l’ennesimo mojito. Forse hanno mollato gli ormeggi, più di quanto il loro giro vita lasci pensare. Le donne – che ovviamente amiche tra loro non sono – fumano e guardano fuori inquadratura.

Poi ci sono le foto sfuocate. Adoro le foto sfuocate. Non si capisce molto è vero, ma è tutto un fiorire di luci sfilacciate, inquadrature bislacche, facce sguaiate che improvvise entrano nell’immagine, magari dal basso.

Ultime vengono le foto delle feste in discoteca, possibilmente all’aperto. Amici che si fotografano abbracciati e sudati, lui che stringe due lei, quattro lei che ammiccano, lei sulle ginocchia di lui, non necessariamente le persone si conoscono tro loro, ma tant’è, anche Andreotti non conosceva Riina, se è per quello.

C’è una cosa però che mi sorprende sempre.

Tutti gli uomini indossano una camicia bianca: aperta sul petto oppure elegantemente griffata, con colletto alto 15 centimetri o alla coreana, con le maniche arrotolate oppure chiuse al polso, button down o alla francese. Tutti sfoderano camicie bianche immacolate. E sorridono, guardando nell’obiettivo.

Sapessero quali laghi di sudore si aprono sotto le loro ascelle forse sorriderebbero di meno.

Losers

L’altra sera ascoltavo conversazioni di bambini.

10 anni, più o meno. Bambini così, senza telefonini, non griffati, simpatici, ok… forse un filo radical-grunge, ma che ci volete fare, nemmeno gesu – da bambino – era perfetto.

Insomma, bambini normali. Giocavano, correvano, si prendevano in giro.

A un certo punto uno fa all’altro: “Sei un perdente”.

Ah… la tenerezza e l’innocenza degli adulti di domani.

Nuvole ripide

La sala riunioni dei nostri nuovi uffici ha delle piccole finestre che inquadrano solo il cielo. Oggi le nuvole passavano veloci: le vedevo entrare a sinistra, dalla prima finestra, poi passavano via, un quadrato dopo l’altro. Io ero lì e mi sentivo piuttosto inutile.

E ho pensato a tutte le riunioni a cui ho partecipato, a tutti i cieli che ho guardato distratto, in mezzo alle parole. Alle nuvole e alle ore trascorse così.

Avrei potuto anche vivere, nel frattempo.

Il passato è un piano di ammortamento

Quest’estate leggevo l’incipit de Il capitale umano di Stephen Amidon.

La solita scena di dialogo all’americana, piena di messaggi non verbali e rumore di jet sullo sfondo. Il protagonista è un immobiliarista in difficoltà, anzi in piena crisi economica e familiare. Di fronte a lui, un cliente nervoso per ritardi in alcuni pagamenti che non mi sono dato briga di approfondire, anche perché ho smesso quasi subito di leggere.

Ho smesso di leggere perché mi sono messo a pensare alla genìa degli immobiliaristi, anzi no, a quella dei consulenti finanziari. Ho pensato che la mia generazione non ha il privilegio di avere un proprio consulente finanziario, perché la cosa presupporrebbe il possesso di un marxiano surplus da investire in cose che non siano il latte per la colazione del giorno dopo, i calzini bassi – i fantasmini – da mettere d’estate e un sacco di terra per far piantare alla mia amatissima fidanzata i gerani sul balcone.

Ed è un peccato. Un vero peccato. Perché io me lo ricordo uno di questi signori. Veniva a trovare i miei genitori una volta al mese, possibilmente di mercoledì. Mio padre doveva rivestirsi e io me ne andavo in camera a fare immancabilmente una versione di latino. Arrivava dopo cena. Alto, con i baffi, l’aspetto elegante. In realtà – adesso che ci penso – era grigio, impolverato, con un aspetto tipicamente da mezze maniche. E con un inguardabile accostamento fra camicia e cravatta. Ma allora mi sembrava tutto eleganza e puro disinteresse. Arrivava e metteva sul tavolo della cucina opuscoli, stampati con piani di ammortamento, prodotti finanziari – da poco avevano iniziato a chiamarsi così – con nomi rassicuranti e patinati.

Era, il soggetto in questione, un bancario in fuga. Uno di quelli che pioneristicamente avevano lasciato il posto in banca alla ricerca di una nuova professione. Oppure era solo uno delle prime vittime della riduzione degli organici e del mobbing nel settore bancario, vallo a sapere. Mio padre apriva una bottiglia di vino e stavano lì a parlare, apparentemente del più e del meno. Credo anche che mia madre facesse un po’ la civetta, ma non ne sono sicuro.

Il tutto mi dava un senso di sicurezza, come se fossero venuti a imbottire di velluto rosso tutte le stanze della casa. Il futuro si prospettava magnifico: tutti sembravano sapere che cosa fare, quando farlo e soprattutto perché.

Qualche anno dopo ho chiesto a mio padre che fine avesse fatto l’individuo e lui, con il suo tradizionale modo di raccontarmi bugie, ha borbottato qualche parola disarticolata e si è messo le dita nel naso, segno indiscutibile di disagio. Evidentemente – da qualche parte nel tempo e nello spazio – anche mio padre aveva atteso nervosamente risposte sui suoi investimenti.

Inutile dire che i miei genitori ora non vivono di rendita. E nemmeno io, del resto.

Metamorfosi di un paesaggio (sub)urbano

Sono cresciuto in un paese alla periferia della città.

Ogni tanto ci torno e quello che ogni volta mi colpisce è l’unica grande e assoluta differenza fra il paesaggio della mia infanzia e quello di oggi: lungo le strade le case sono invecchiate, i grandi casermoni ingrigiti, le villette della zona residenziale sono ammuffite, la zona a edilizia convenzionata sorta più recentemente appare più spenta, persino la piazza principale a cui hanno fatto il lifting solo qualche mese fa dimostra tutti i suoi anni.

Tutto il resto è rimasto uguale.

Sempre la solita merda.

Emozioni forti

Mattina, interno, fine estate, la luce entra piano dalla finestra. Rimesto con la mia consueta gioia un’inesprimibile pappetta di cereali leggendo uno dei numeri di Vanity Fair che il postino ha accumulato nelle settimane scorse nella nostra cassetta delle lettere.

Oh… una premessa: ma lo sapevate che Vanity Fair è un SETTIMANALE e che se state fuori tre settimane in vacanza poi vi ritrovate a dover sfogliare centinaia di pagine di gossip, moda, qultura (non trovo la k sulla tastiera) e articoli che fingono, anzi trasudano, serietà ma si vede benissimo che in realtà sono illeggibili cazzate. Il tutto condito dalla righina finale che scandisce: “tempo di lettura previsto…”.

In ogni caso, leggo un’improbabile intervista a Jo Champa che, fortunati tutti noi, ci avverte che per il decimo anniversario di matrimonio ha voluto sorprendere il suo adorabile e quasi ottuagenario marito (del resto pensavo che anche lei viaggiasse per gli ottanta e invece ha solo 41 anni. Ma tu guarda le sorprese della vita) con un servizio fotografico di NUDO. Ora, a parte il fatto che nelle foto si vedono solo due tette, con la signora sistemata in una posizione tale da sconfiggere la legge di gravità, così da farle sembrare soffici nuvole che sfilano leggere nel cielo, ora – dicevo – il punto non è questo. Due tette si guardano sempre, anche se sono di Jo Champa (se solo mi ricordassi chi è Jo Champa sarei anche più contento).

Il punto è: sollecitata a comunicare all’umano consesso perché, dopo alcuni anni di beata assenza, avesse deciso di tornare a recitare, la signora pronuncia la seguente frase: “Mentivo in buona fede. Me ne sono accorta guardando Una notte al museo 2 con mio figlio Sean. In una scena romantica, sono scoppiata a piangere e ho pensato: “Ecco, è questo. Niente altro mi dà emozioni così forti”. Così ho deciso: faccio un film”.

Allora ho abbassato gli occhi, ho guardato il mio Weetabix molliccio, inzuppato di latte parzialmente scremato e ho pianto. E ho pensato: “Ecco, è questo. Solo i cereali mi danno emozioni così forti”.

Che sia giunto il momento anche per me di tornare a recitare?