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La panchina

Una volta – c’era ancora il muro di Berlino in piedi – sono andato prendere un aperitivo con una ragazza. Eravamo in un bar del centro, uno di quelli che ora sono diventati un negozio di intimo o di ottica. Era un posto interessante, forse un po’ polveroso. Oppure è adesso che mi sembra fosse polveroso. In quel bar facevano degli ottimi degli stuzzichini ante-litteram, prima cioè dell’avvento dell’era dell’aperitivo. Bevevi una cosa e mangiavi un tramezzino tagliato a cubetti. Alla cassa, un’anziana signora chiamava tutti dottore o avvocato, tranne il sottoscritto naturalmente. Fatalità vuole che non emettesse mai nessuno scontrino: e pensare che quelli erano i tempi dei finanzieri appostati all’uscita.

In ogni caso bevemmo e chiaccherammo per un po’, io e quella ragazza. Era mezzogiorno, più o meno. Poi, non ricordo più nulla. Mi sono risvegliato 4 ore dopo sdraiato su una panchina, nella via pedonale adiacente al bar, con il mio Campari shakerato distribuito uniformemente sulla camicia. Ricordo che la camicia era alla coreana, quindi immaginate l’effetto. C’erano anche dei frammenti di tramezzino. Formaggio cremoso insaporito con il tartufo. E comunque non erano pezzi molto grandi.

Non ho mai più rivisto quella ragazza.

Ancora oggi, quando passo da quelle parti mi guardo attorno con circospezione e cammino rasente ai muri.

Ho sempre avuto paura del fantasma formaggino.